Così
vengono respinte le richieste dei migranti che hanno partecipato a
proteste e manifestazioni. Basta una segnalazione della Digos e dei
servizi, senza reati, per respingere la richiesta di un cittadino
straniero. In tre anni sono 600 coloro che sono stati considerati
“potenzialmente pericolosi”. Ma non si sa il perché.
di
Gaetano De Monte
e
Marika Ikonomu
da Il Domani
Urlare “viva l’Italia antifascista!” non
è reato. Anzi, l’antifascismo è un valore protetto dalla Costituzione,
così come protestare per quello che le istituzioni non stanno facendo
per il clima. Al Festival della letteratura di Mantova, un attivista
climatico aveva esposto un cartello con la scritta “ma non sentite il
caldo?”. Tra gli sponsor c’era Eni. In entrambi i casi il dissenso
politico è stato criminalizzato e le persone sono state identificate. Le
informazioni raccolte sono confluite nella banca dati SdI del ministero
dell’Interno.
In assenza di motivi validi e
comunicati, però, c’è il rischio che si affermi una forma arbitraria di
schedatura. E che chi sta esercitando la libera manifestazione del
proprio pensiero venga trattato come un soggetto pericoloso, un
sovversivo. Non sfugge che le conseguenze di questa nuova “prassi”
possano essere ben peggiori per chi non è cittadino italiano e si
ritrova a presentare alla pubblica amministrazione la richiesta di
cittadinanza. Un “mero sospetto” può infatti portare a un diniego.
“Dall’istruttoria sono emersi elementi che non consentono di escludere
possibili pericoli per la sicurezza della Repubblica e per tale motivo
ostativo alla concessione della cittadinanza”. Con queste poche parole,
tre righe senza nessun’altra spiegazione, solo un semplice sospetto, il
ministero dell’Interno, negli ultimi tre anni, ha rigettato le domande
di cittadinanza di centinaia di cittadini
stranieri che avevano tutto il
diritto di acquisirla. E lo ha fatto senza che queste persone avessero
mai commesso un reato, fossero mai state indagate o imputate in un
procedimento penale, dunque, senza che avessero una macchia sul proprio
casellario giudiziario.
Punire il dissenso – È il caso, per
esempio, di un uomo di 31 anni che è nato in Marocco ma vive da 15 anni a
Verona. Karim (nome di fantasia) ha chiesto di rimanere anonimo per
proteggere la sua identità e il suo ricorso contro il diniego della
cittadinanza. Nella città scaligera è molto conosciuto e stimato,
soprattutto nel mondo universitario e dell’associazionismo dove opera da
tempo come volontario e operatore. Fa parte del Laboratorio autogestito
Paratodos, uno degli spazi sociali più grandi di Verona che svolge
diverse attività di carattere sociale, come la scuola di italiano, lo
sportello sociale, corsi ed eventi culturali. Ma anche un importante
luogo di critica e politica dal basso, attraverso l’organizzazione di
manifestazioni di piazza.
Sul piano lavorativo e sociale,
professori universitari, dipendenti dell’azienda ospedaliera della
città, assessori e consiglieri del comune hanno raccontato che
l’approccio di Karim è quello di apertura e collaborazione, capace di
avvicinare culture diverse, di costruire ponti. Una professoressa
dell’università di Siena, che conosce il suo lavoro, ha sottolineato la
sua capacità di confronto pacifico, altruismo e senso civico,
definendolo “un giovane uomo che sta rendendo l’Italia un paese
migliore”. Non ha precedenti, né procedimenti penali in corso e non ha
mai commesso reati. Ma il ministero dell’Interno su di lui nutre un
sospetto, e Karim l’ha scoperto quando gli è stata notificata una
comunicazione secondo cui vi sarebbero “elementi che non consentono di
escludere possibili pericoli per la sicurezza della Repubblica” che,
ovviamente, costituiscono un ostacolo alla concessione della
cittadinanza.
In situazioni analoghe alla sua, alla
base della decisione c’era un rapporto delle forze dell’ordine. Per
questo l’uomo ipotizza di essere stato attenzionato dalla divisione
locale, per la frequentazione e partecipazione alle attività del centro
sociale e per il suo impegno da attivista sul territorio in favore dei
più deboli. Già, perché queste storie sembrano essere un passo oltre la
criminalizzazione del dissenso attraverso l’identificazione nelle banche
dati della polizia di cui questo giornale ha già dato conto.
Cittadino modello – Karim ha raccontato a
Domani di aver presentato la domanda di cittadinanza per
naturalizzazione, avendone i requisiti, nel febbraio 2019. L’uomo è
arrivato in Italia con la famiglia nel 2008, quando aveva 15 anni, e ha
ottenuto prima un diploma di scuola superiore e poi la laurea nel 2021.
Nel frattempo ha partecipato attivamente a progetti formativi
all’interno dell’istituto, ed è stato rappresentante della sua scuola
all’Expo di Milano, alla presenza delle più alte cariche dello stato.
Insomma, siamo di fronte a un “cittadino modello” che ha intrecciato,
negli anni in cui ha vissuto in Italia, molteplici relazioni sia
professionali, con associazioni del terzo settore, università e
istituzioni pubbliche locali, sia personali, aiutando persone in
difficoltà. “In quanto ragazzo, diciamo così, di seconda generazione è
come se non avessi il diritto al dissenso, alla critica e alla
partecipazione politica. In generale alla conoscenza del mondo che mi
circonda”, racconta Karim.
“Si preferisce una persona che vive una
vita casa e lavoro, non esce e non partecipa”, continua, “invece di
considerare un cittadino modello chi prende parte alla vita politica”. I
suoi avvocati, che hanno presentato ricorso al Tar, fanno notare come
sia già membro attivo della società civile italiana e come
quotidianamente dia corpo ai valori della Costituzione. Il tribunale
amministrativo avrà quattro anni di tempo per decidere.
Al di sopra di ogni sospetto – Eppure,
per il ministero dell’Interno che ha valutato e firmato il rigetto della
domanda di cittadinanza, l’uomo è considerato potenzialmente
pericoloso. Secondo il dicastero, “gli elementi ostativi provengono da
organismi istituzionalmente preposti a operare per la sicurezza dello
stato, riconducibili a fonti affidabili di cui non è dato dubitare, e
quindi, non risulta possibile esplicitare ulteriormente i suddetti
elementi ostativi”. E ancora, i funzionari del Viminale ritengono che
“la verifica della sussistenza di motivi inerenti alla sicurezza della
Repubblica non si riduce all’accertamento di fatti penalmente rilevanti
ma si estende all’area della prevenzione dei reati”.
Detto in altri termini: per vedersi
respinta la domanda di cittadinanza basta un semplice sospetto
dell’intelligence, non è necessario aver commesso alcun reato. Basta
essere stato citato in un report durante una manifestazione o fare parte
di un movimento di contestazione, anche senza denunce o formali
identificazioni. Informative non conoscibili dall’interessato. “L’ho
vissuta come un’intimidazione”, commenta Karim, “ma ho continuato a far
parte del movimento”.
Nonostante il ricorso, poi, i suoi
legali non hanno avuto alcun dettaglio sulle accuse mosse, dato che
questo genere di atti è secretato. L’avvocato non può quindi ricevere
altra indicazione utile per sapere le motivazioni del diniego e così
difenderlo come la legge prevede. Non solo. La difesa dell’uomo, pur
riconoscendo l’ampia discrezionalità del ministero dell’Interno in
materia, ha evidenziato che la discrezionalità non può giustificare
“l’assenza di un minimo di contenuto motivazionale”. La decisione sulla
base del mero sospetto, sottolineano gli avvocati, non può degenerare in
libero arbitrio: non spiegare con rigore le ragioni significa non
consentire alla persona di difendersi. Il ministero dell’Interno non ha
risposto alle richieste di commento inviate via mail da Domani.
Non sono casi isolati – Secondo quanto
emerso da un accesso agli atti presentato dall’Associazione studi
giuridici sull’immigrazione, “il numero di istanze rigettate sulla base
di ragioni inerenti alla sicurezza della Repubblica era di 233 nel 2020,
169 nel 2021 e 218 nel 2022”. Per il 2023 il dato ancora non è
disponibile, ma è possibile ipotizzare che segua la tendenza.
L’autorità giudiziaria avrebbe il
compito di vigilare sul potere discrezionale della pubblica
amministrazione ma di fatto non entra nel merito, limitandosi a
verificare la coerenza della spiegazione data dalla Digos da un punto di
vista logico. Di solito sono poche righe di motivazione, molto
generiche, e gli avvocati non solo non possono fare una copia degli atti
di indagine – possono solo trascrivere sotto gli occhi dell’autorità –
ma non hanno nemmeno la possibilità di opporre un’eccezione oltre la
manifesta illogicità. “Sono evidentemente valutazioni funzionali a una
politica di prevenzione che, svincolandosi dalla commissione di un fatto
concreto, resta facilmente in balìa di pregiudizi razziali e
valutazioni politiche”, dicono i legali. Resta il fatto che da questi
sospetti è impossibile difendersi, proprio per il carattere
discrezionale dei provvedimenti in materia di cittadinanza che sono
affidati alla decisione esclusiva del ministero dell’Interno.